di Marco Delpino
“Dunque, dove eravamo rimasti?”.
Era il 17 giugno 1983, un venerdì, un “venerdì nero”.
Enzo Tortora veniva arrestato ingiustamente. Meglio: crudelmente.
Un “uomo perbene” veniva accusato di un reato assurdo. Il suo
“calvario” durò molti anni… troppi anni.
Sono stato, da sempre, un convinto “innocentista”. Da quando, cioè,
l’Italia, sconvolta e incredula dalle immagini televisive di quel
famoso venerdì 17 giugno 1983 in cui un Tortora ammanettato e spaurito
veniva gettato in pasto all’opinione pubblica, si spaccò in due:
coloro che credettero all’infame racconto di alcuni pentiti secondo
cui il presentatore altro non era che un Dottor Jekyll e un Mister
Hyde capace d’essere al tempo stesso idolo delle vecchiette e dei
bambini e losco trafficante di morte, e chi, al contrario, riteneva
Tortora vittima di un gigantesco errore giudiziario.
Sono stato “innocentista” perché ho avuto modo di vedere in cosa
consistevano alcune delle cosiddette “prove” a suo carico: un’agendina
sulla quale era indicato un nome: “Tortona” che, nella “zelante”
trascrizione di un brigadiere, perse la “enne” in cambio di una
“erre”; un numero telefonico indicato accanto che peraltro non
corrispondeva ad alcun recapito riconducibile a Tortora (ma nessuno si
peritò di accertare). Inoltre collaborai, assieme al giornalista
sammargheritese Aldo Bortolazzi, alla “scoperta” di un “ingombrante”
omonimo di Tortora, tal “don” Vincenzo, boss mafioso italo-americano
residente a Boston. La notizia la ricavammo da un giornale
statunitense e Bortolazzi la pubblicò, con evidenza nazionale, sul
quotidiano “Il Secolo XIX”.
Non sto a dilungarmi su quelle che furono le tappe di una vicenda
umana che sicuramente passerà alla storia come uno dei più clamorosi
errori giudiziari del nostro tempo. Dapprima lo spettacolare arresto
di Tortora (con telecamere), poi il lungo iter giudiziario, poi ancora
il trionfo della giustizia e infine la penosa malattia e la repentina
morte.
Da “spettatore” (a parte un sincero messaggio di stima e di augurio
inviatogli in carcere agli inizi della sua travagliata avventura), ho
assistito, con dolore e tristezza, alla brutalità e alla crudeltà che
si accanivano nei confronti di chi, caduto nella polvere, era stato
per anni idolo del piccolo schermo.
Crudeltà da parte di molti giornalisti che forse non avevano mai
sopportato la brillante carriera del collega e soprattutto il fatto
che Tortora fosse un eterno “bastian contrario”. Non mancarono alcune
eccellenti eccezioni, tra cui Piero Angela, Indro Montanelli, Enzo
Biagi e Giovanni Minoli, che lo difesero a spada tratta.
Brutalità da parte del potere politico che preferì stare alla finestra
a guardare come sarebbe andata a finire (anche in questo caso, con
alcune eccezioni, tra cui ricordo il leader radicale Marco Pannella,
che lo candidò, facendolo eleggere, a europarlamentare, e il senatore
missino Giorgio Pisanò, autore di alcuni clamorosi articoli “scoop”).
Crudeltà da parte del mondo dello spettacolo. Anche in questo caso con
poche eccezioni, tra cui Pippo Baudo, Renzo Arbore, Bruno Lauzi e Cino
Tortorella (sì, proprio il “Mago Zurlì”).
Brutalità da parte di persone che un tempo magari stravedevano per il
“Portobello” televisivo, per poi sbavare un incomprensibile livore e
gridare “al mostro!” senza uno straccio di prova.
È doloroso ripercorrere le tristi tappe della vicenda Tortora.
Tutti sappiamo come andò a finire: una prima condanna a dieci anni
inflittagli nel settembre 1985 dal Tribunale di Napoli con la
bruciante accusa d’essere camorrista e spacciatore di droga; poi
l’assoluzione con formula piena il 15 settembre 1986 da parte della
Corte d’Appello e la successiva conferma del 16 marzo 1987 da parte
della Cassazione.
Poi ancora il ritorno alla Tivù, gli applausi convinti del suo
pubblico (ma non era più il Tortora dei tempi d’oro), la straziante
malattia (ci fu chi non credette neppure a quella), la sua tenacia nel
lottare (dapprima contro l’ingiustizia, poi contro il male), la sua
tragica morte, il suo esempio.
Alla luce di quel che è accaduto dopo, una mia idea su tutta la storia
me la sono fatta anni fa e oggi sono più che mai convinto che,
d’accordo sull’errore giudiziario, per Tortora ci fu forse la volontà
di creare un “caso”, e che il personaggio sia stata l’inconsapevole
pedina di un ben architettato “piano”.
Preciso meglio il mio sospetto: con questo “caso”, a uscirne con le
ossa rotte fu soprattutto la Giustizia italiana.
Agli inizi degli anni Ottanta, infatti, Enzo Tortora era uno dei più
famosi volti televisivi la cui popolarità contribuiva già di per sé a
spaccare in due gli italiani. A differenza di un Pippo Baudo, ad
esempio, Tortora era amato oppure (chissà perché?) odiato.
Quindi l’uomo giusto per montare un bel “caso giudiziario”, “gonfiare”
una vicenda ai suoi danni, creare l’errore giudiziario, far fare alla
Giustizia italiana una figura barbina (con giudici in disaccordo tra
loro, pentiti inaffidabili), diffondere sgomento e rabbia
nell’opinione pubblica, indurre alla mobilitazione la stessa per
chiedere una “giustizia più giusta”, e infine mettere alla gogna una
Magistratura a dir poco “borbonica”.
Ma torniamo al Tortora ligure e all’episodio “tigullino” che mi riguarda.
Nato a Genova il 30 novembre 1928, alla Liguria e al Tigullio, in
particolare, Enzo Tortora era molto affezionato.
Santa Margherita Ligure, Rapallo e Chiavari furono le città della sua
giovinezza: i bagni d’estate a Paraggi o al Porticciolo di Rapallo, le
sue amicizie giovanili, i suoi ricordi di gioventù. E proprio a
Rapallo il suo primo amore, con il matrimonio, celebrato il 26
dicembre 1953 nella Chiesa dei Santi Gervasio e Protasio, con la prima
moglie, Pasqualina Reillo. Un’unione naufragata dopo pochi anni.
Quindi, inevitabilmente, sul Tigullio, che fece da sfondo a questa
negativa parentesi sentimentale, cadde il velo dell’oblio per lungo
tempo.
Tornò, Tortora, nel Tigullio – più precisamente a Sestri Levante, per
motivi di lavoro – nel 1960, ai tempi di “Campanile sera”, la
fortunata trasmissione del giovedì che il giornalista-presentatore
conduceva assieme ad Enza Sampò e a Renato Tagliani.
La città di Sestri Levante restò campionessa per ben sei settimane, da
giovedì 20 ottobre a giovedì 24 novembre 1960, allorché, battuta da
Osimo, cadde sulla domanda dello “Schiaccianoci” di Ciaikovskij.
Durante quel mese e mezzo di permanenza nel Tigullio Tortora ne
avrebbe avute di cose da raccontare.
Molti anni dopo, quella bella pagina tigullina la raccontammo noi sul
periodico “Bacherontius”, affidandola alla penna dell’indimenticabile
giornalista Carletto Mori, nostro prezioso collaboratore da Sestri
Levante, che negli anni Sessanta aveva “vissuto” le tappe del
“Campanile Sera” nella città “Bimare” per essere stato corrispondente
del quotidiano genovese “Corriere Mercantile”. Mori, in un ottimo
articolo comparso sul numero del giugno 1982 della mia rivista,
raccontò di quella sera in cui Tortora fece conoscere al grande
pubblico televisivo la storia di Sestri e delle sue due Baie, quella
delle Favole a ponente e quella di Portobello a levante a cui il
favoliere danese Hans Christian Andersen e il poeta sestrese Giovanni
Descalzo diedero i rispettivi celebri nomi.
L’articolo del “Bacherontius” non passò inosservato a Tortora, al
quale arrivò tramite l’”Eco della Stampa”. E Tortora, con la
signorilità che l’ha sempre contraddistinto, si sentì in dovere di
ringraziarmi per aver ricordato un episodio di vera poesia e di grande
amore per la terra ligure.
Mi scrisse una gentile e bella lettera, che conservo tra le cose più
care, che riporto per intero:
“Caro Delpino, ho ricevuto, e ringrazio, la copia del “Tigullio” (in
quegli anni “Bacherontius” era “Tigullio-Bacherontius” n.d.r.). Sono
particolarmente grato a Lei per aver ricordato quell’episodio. Vi
sono, in effetti, affezionato. E sono felice di aver “battezzato”
(l’amico Coppini (*) amabilmente mi sfotteva per questo) un pezzo
della mia Liguria. Su quella sera potrò, se vuole, raccontarle molto.
Ma quanto mi preme, creda, più di ogni altra cosa, è aver dato in
quell’occasione uno spunto, che non direi… inutilizzato, ai cittadini
di Sestri legandoli al mondo della fiaba e della letteratura per
l’infanzia”. “Molti, purtroppo – proseguiva ancora Tortora – sono gli
immemori anche in Liguria, creda… E quanto ho fatto, l’ho fatto come
è mio costume. Con il cuore, l’entusiasmo. Oggi è quasi da fessi. Le
rinnovo il mio grazie, Enzo Tortora”.
Questa lettera stuzzicò la mia curiosità di cronista. “Se vuole potrò
raccontarle molto”, mi scrisse Tortora. Certo che volevo. Per cui, per
saperne di più, presi contatto con il giornalista televisivo, i cui
impegni – all’epoca – erano alquanto pressanti. Reduce dall’ennesimo
successo di “Portobello”, Tortora stava preparando “Cipria”, una
trasmissione per “Retequattro”. Dopo un paio di rinvii autunnali,
rimandammo l’appuntamento per una favolosa “zuppa di pesce con
intervista” a Sestri Levante alla successiva estate del 1983.
Cosa accadde il 17 giugno di quell’anno è a tutti noto. Per Enzo non
ci fu più né l’occasione, né il tempo, né soprattutto la voglia e lo
spirito per rievocare un simpatico momento della sua vita “tigullina”
degli anni Sessanta cui un articolo di “Bacherontius” aveva riacceso
il piacevole ricordo in quell’ancor spensierata estate del 1982.
Oggi, nel ricordare questo episodio, rendo omaggio al galantuomo Enzo
Tortora che ha pagato, con il carcere, la sofferenza e la morte, il
suo coraggio, la sua libertà, la sua onestà intellettuale e morale.
(*) Guido Coppini, impareggiabile e infaticabile giornalista e grande
amico, allora alla “Gazzetta del Popolo” di Torino passato poi, negli
ultimi anni della sua carriera (e della sua vita) al quotidiano “La
Stampa”.