La Val Bormida e il segreto della goccia di Ferruccio Sansa

di  Ferruccio Sansa
Versate una goccia d’acqua in terra in Val Bormida. Ne basta una per capire il segreto. Piano piano scende verso Nord. Verso il Tanaro e poi il Po. Arriva infine all’Adriatico. Non al mar Ligure.
“Siamo una valle che fa parte della Liguria, ma il nostro fiume va dall’altra parte”, ti racconta la gente con quel dialetto che, come l’acqua, raccoglie nell’aria colori di una e dell’altra regione.
È la ricchezza di tutte le terre di confine, che partecipano a mondi diversi, il mare e l’Appennino. La pianura. Ma che rischiano anche l’isolamento. Non sono completamente nè dell’uno, nè dell’altro.
Sono venuto tante volte in Val Bormida in questi anni da consigliere. Ci sono tornato adesso nel giro per i 234 comuni della Liguria.
Chissà, forse mi attira il sangue, perché pare che una parte della mia famiglia venisse da qui vicino, da Giusvalla, dove tanti si chiamano Perrone. Gente di terra e di mare, appunto. Perché qui, a Plodio, veniva mia madre da piccola: “le più belle estati della mia vita”, mi raccontava. E a ogni curva ieri mi sembrava di trovarmela davanti bambina.
Ma a richiamarmi è soprattutto quel senso di dolore che questa terra ha subìto negli ultimi decenni. L’inquinamento che ha colorato il fiume, intriso la terra, che si è infilato nei polmoni della gente. E che continua ancora adesso nei fumi della cokeria, nel progetto assurdo di un nuovo inceneritore: “Intanto laggiù sono già abituati”, forse pensa la cattiva politica.
Sì, mi sembra di dover qualcosa a questa terra trascurata. Dimenticata. Senza nemmeno un consigliere regionale nonostante i 40mila abitanti. Nonostante tutto quello che ha dato alla Liguria.
Tanto lavoro, tanta fatica, tanti sacrifici. Li vedi ancora nelle ciminiere delle fabbriche, nella case operaie sparse nel fondovalle.
Quante esistenze, quante donne e uomini si sono alzati ogni mattina per anni, decenni per lavorare.
Già, campagna e di industria, la Val Bormida.
Fatica, comunque.
Sono stato tutto il giorno, ho riempito il mio taccuino: le aree abbandonate dell’Acna di Cengio, l’enorme vetreria cadente ad Altare, la sanità che non cura, le scuole che chiudono. Tanti problemi e tante occasioni per un nuovo sviluppo finalmente pulito; perché qui ci sono spazi, collegamenti, competenze. Siamo vicini ai porti e alla pianura.
Sì, in Val Bormida io vedo soprattutto occasioni ancora non colte.
Ce ne occuperemo presto. Ve lo prometto.
Ma oggi vorrei parlarvi di questo: di persone e di foglie. Questo mi ha lasciato ieri la Val Bormida.
Le persone che all’improvviso mi sono ritrovato davanti aprendo la porta della trattoria k2. A indicarne l’esistenza più che le insegne sono le voci che senti arrivare dall’interno. E appena entri all’ora di pranzo ti arriva addosso una ventata di parole. La voce robusta di Fabio, il proprietario, che corre tra i tavoli con i capelli sempre mossi. E poi parole sottili di una vecchia coppia seduta accanto a noi al tavolo, parole che si scambiano da una vita, che non hanno bisogno nemmeno di un suono, ma soltanto delle labbra. E poi urla di operai che forse sono abituati a parlare tra martelli che battono, frammenti di racconti di cacciatori. Un gruppo di ragazzi con la faccia rossa di vino che parla a ritmo di bestemmie. Ma non cattive, non arrabbiate. Un semplice intercalare.
E dietro il bancone quelle bottiglie di amari, di liquori che riportano ad altri tempi, l’insegna gialla e rotonda del telefono pubblico.
Sì, dopo una giornata così non c’è niente di meglio di una trattoria dove tutte le parole si confondono insieme, le nostre non si distinguono più da quelle degli altri. E non sai più cosa hai detto o ascoltato. Poi il cibo – la polenta fumante – che ci fa sentire tutti uguali. Persone. Almeno per un’ora, finché ognuno uscirà di nuovo dalla porta, si chiuderà la giacca e prenderà la propria strada.
Ho visto tante facce ieri. Ho ascoltato decine di parole e di storie. Prometto, spero, di non dimenticarne nessuna. Mi hanno fatto sentire vivo. Mi hanno ricordato che non sono solo. Ne avevo bisogno.
E poi, proprio prima di partire, camminare almeno un po’ nei boschi. In questo autunno così incerto che non sa nemmeno staccare le foglie dai rami.
Ci occuperemo presto dei problemi e delle occasioni della Val Bormida. Siamo venuti per questo, è il nostro dovere.
Ma intanto teniamoci dentro tutti quei gialli, i rossi dei castagni. Ci ricordano che una stagione è passata e un’altra arriva. Ci dicono che qualcosa tra poco si staccherà dal ramo – è la stagione, è la vita – ma prima di cadere a terra si godrà un piccolo volo. “Foglie, ora che siete cose finalmente volate”, diceva così una poesia.
La goccia che corre verso il Po, la gente e i sindaci che ci hanno accolto, i bambini migranti che studiano nell’Arci di Cairo, l’allegria spensierata della trattoria. E poi le foglie.
C’era tutto questo nella Val Bormida ieri.

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