Genova, Artemisia Gentileschi coraggio e passione

di Antonella Pratali

Ci sono diversi buoni motivi per visitare la mostra dedicata a Artemisia Gentileschi, promossa e
organizzata da Arthemisia con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova e
Regione Liguria (aperta a Palazzo Ducale fino al 1/4/24). Attraverso cinquanta dipinti e alcune
installazioni video, il visitatore può ricostruire il vissuto oscuro e difficile della giovane donna dalla
personalità complessa e dal carattere eccezionale. Il linguaggio stilistico di Artemisia si avvale di
influenze caravaggesche, pur costruendo e mantenendo la propria assoluta originalità.
La storia della pittrice incomincia nell’atelier del padre Orazio, pittore di un certo successo, che per
farsi aiutare la introduce all’uso dei colori e dei pennelli. Orfana di madre a dodici anni, Artemisia
si deve occupare delle faccende domestiche, dei fratelli e del padre, che le permette di uscire solo di
primo mattino, accompagnata dalla vicina di casa Tuzia, per recarsi in chiesa.
Quando battezza la figlia, Orazio non prende in considerazione che nel nome è racchiuso il destino,
come dicevano gli antichi. E la figlia, crescendo, pare ispirata dalla mitica e potente Artemisia,
diventando determinata e indomita come lei.
Questa caratteristica sarà fondamentale per la fanciulla: nonostante la stretta sorveglianza a cui è
sottoposta, subisce violenza carnale da un amico del padre, il pittore Agostino Tassi, detto lo
Smargiasso, un poco di buono di cui il padre si fida e che ne frequenta la casa.
Il processo contro il Tassi, voluto dal padre, la vede vincitrice ma al contempo perdente: ha dovuto
subire la tortura prevista dalla giustizia del tempo durante gli interrogatori, è stata costretta a farsi
visitare in pubblico per determinare l’avvenuta deflorazione, ha ormai perduto la propria
onorabilità, perché la donna che subisce uno stupro è una poco di buono e nessuno la vorrà in
moglie. Lo stupro è sì un reato, a quel tempo, ma contro la famiglia. Tassi viene condannato
all’esilio e a un’ammenda, ma rimarrà a Roma, protetto dai suoi contatti nelle alte sfere
ecclesiastiche.
Anziché piegarsi e abbandonarsi alla disperazione, pur profonda, Artemisia segue il proprio talento
artistico e dipinge soprattutto soggetti femminili, spesso prendendo a modello se stessa.
Le donne da lei raffigurate, tratte da soggetti biblici, mitologici o della storia antica, sono sicure di
sé e fiere come eroine, e sotto la sua mano diventano semplicemente donne dolenti ma coraggiose,
combattive, sensuali, passionali e soprattutto disobbedienti, come lei stessa.
Dipingendo per oltre quarant’anni, dal 1610 al 1654, Artemisia si mette a nudo e costruisce la sua
biografia per immagini, riceve importanti commissioni dai potenti dell’epoca, in un contesto in cui
la rivalità tra pittori era furiosa e un posto per le donne non era contemplato, né concesso.
In un tempo in cui le donne appartenevano legalmente ai propri padri o mariti e la Chiesa inventò la
caccia alle streghe, Artemisia non si piegò né si lasciò sconfiggere dalla misoginia imperante, dando
un contributo fondamentale per il cambiamento della posizione della donna nella società.
Dimenticata dopo la sua morte, sebbene sia stata la prima donna ammessa all’Accademia delle Arti
del Disegno, fondata da Giorgio Vasari a Firenze nel 1563, viene riscoperta solo nel 1916 grazie
allo storico dell’arte Roberto Longhi. Negli anni Settanta diventa un’icona del movimento
femminista, per la sua resilienza, la forza, la ribellione ai privilegi patriarcali, la capacità di riscatto
e il raggiungimento di un’indipendenza anche economica.
La mostra, oltre a essere godibile e ben organizzata, è un’occasione per riflettere su quanto ancora
sia necessario lavorare affinché le donne riescano a “sfondare il tetto di cristallo” e a occupare il
posto che meritano nel mondo.

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